IL CLOWN

Non c’è miglior modo per glorificare l’onnipotente che ridacchiare con lui dei suoi scherzetti, specialmente i meno riusciti​

Samuel Becket, Happy Days

La poetica del fallimento abita la figura del Clown, ne è la sua natura, e tutto il suo gioco vitale si muove intorno all’incapacità di “potere nel mondo”. Il Clown abita la follia in modo affascinante dandoci la possibilità di deliziarci in rappresentazioni non eroiche. Gioca con i suoi fallimenti facendo di essi la propria forza e la propria espressione: è sproporzionato nei modi e maniere, assente nell’ordine tra corpo e mente, ma ha la capacità di scivolare attraverso la vita con sicure franchezza e grazia, dandoci la possibilià di rinunciare ad un po’ della nostra “presa mortale sul controllo”.

Workshop intensivo a cura di Merry Conway

Il Clown, Cosenza.

MERRY CONWAY ha insegnato Movimento con Kristin Linklater alla Shakespeare & Company con Trish Arnold alla Carnegie-Mellon, presso LAMDA e la Guildhall di Londra, oltre a condurre numerosi workshop in università e in modo indipendente. Merry è stata insegnante di recitazione e movimento per Anna Deavere Smith e Los Angeles Women’s Shakespeare Company, ed è stata “Clownmaster” a Shakespeare & Company, approfondendo negli anni lo studio del fool e clown in Shakespeare. Negli ultimi 20 anni è stata la Co-direttore artistico del Conway & Pratt Projects, facendo numerosi walk-through in luoghi ospitati in spazi abbandonati. I temi dei progetti hanno natura sociale e creano immagini di gesto e memoria fisica con performance, video e pellicola Super 8. Essi intrecciano queste immagini con gli oggetti dati in prestito e con interviste di centinaia di persone nelle comunità locali. Merry ha insegnato alla Boston University e al Common Stock Theatre London, e ha studiato negli anni con Jacques Lecoq. Il workshop di Alta Formazione Teatrale è organizzato da ConimieiOcchi e progettato per attori professionisti e studenti, insegnanti di movimento, insegnanti Linklater e Linklater in formazione.

SUL CLOWN di Francesco Votano

“Il clown non esiste al di fuori dell’attore che lo recita: siamo tutti dei clown, ci crediamo belli, intelligenti e forti, allorché ognuno di noi ha le sue debolezze, i lati ridicoli che, rivelandosi, provocano il riso”

Jacques Lecoq

Il clown mette in luce l’individuo nella sua unicità e sgretola, demistifica la pretesa di ognuno di voler essere superiore all’altro. In una cultura ossessionata dalla performance, dall’idea del vincente, dove non c’è spazio per la fragilità, gli errori e le imperfezioni, spesso si ha il bisogno di indossare il costume del ‘super-eroe’ e mostrare solo una parte del proprio sé: quella sicura, brillante, seducente, comunque e sempre invulnerabile. Chi è inteso come “vincente” sembra non dover esprimere alcuna ironia in quanto si presume che egli non abbia alcun difetto, e dunque nessun contenuto risibile. I “vincitori” sembrano al di sopra di ogni debolezza, come se le loro certezze impedissero di guardare se stessi come esseri umani. In questa raffigurazione del potente, c’è una disumanizzazione che lo porta a credersi quasi divino, a ergersi al di sopra dell’umano, rifiutando così di ammettere incertezze e debolezze, però rischia di non poter sorridere di sé e dunque di non potersi appropriare di tutto ciò che è profondamente e splendidamente umano. Il clown invece racconta storie “umane” che rendono umani. In questo senso, è rivoluzionario: ci aiuta a celebrare le nostre imperfezioni trasformandole in formidabili strumenti per stabilire empatia, per allentare le tensioni e creare un clima rilassato e divertente. Ci aiuta a godere della bellezza dell’esserci, così come siamo, e non come dovremmo essere! Con il clown impariamo a passare fluidamente da un punto di vista all’altro, ad attraversare il fuoco del conflitto, a risvegliare il nostro immaginario poetico e giocoso. E così l’errore, la fragilità, la goffaggine, se esplicitati, apprezzati, condivisi, diventano un dono: la porta verso l’inaspettato, la chiave di accesso allo stupore, alla meraviglia del processo in cui tutte e tutti navighiamo. Per questo il clown è ostinatamente ottimista, senza pregiudizi egli sa che tutto serve, che ogni cosa è nutrimento e occasione per celebrare il presente.

L’umorismo riesce a trasformare situazioni di conflitto interpersonale in occasioni in cui è possibile esplorare modalità comunicative alternative”.

Marianella Sclavi

Dunque il clown può esprimere i paradossi dell’esistenza, quel doversi adattare ad una realtà che si sente estranea, oppure il sentirsi come stranieri nel proprio paese. Egli può risultare un sovversivo, poiché modifica le prospettive comuni, inventa un suo linguaggio e mostra difetti che molti nascondono.
Il clown è una “figurazione di pulsioni filosofiche ed anarchiche allo stato puro” (Papini) .

LA TRASPARENZA DEL CLONW

Spiegare il Clown è un’assurdità, in quanto lui è imprevedibile, resta solo di stare li, a vedere ciò che passa. Nella sua forma pura e non contaminata da altre discipline, il Clown a differenza di tutti gli altri tipi d’attore o d’artista, non ha un ruolo o una tecnica da esporre, se non quella del “non far niente”. Il Clown è l’arte del non far niente!

Recherche de son propre clown, pas imitation d’un modèle de clown de cirque. A la différence de la commedia dell’arte, l’acteur n’a pas à entrer dans un personnage préétabli, il doit découvrir en lui la part clownesque qui l’habite. Moins il se défend, moins il essaie de jouer un personnage, plus l’acteur se laisse surprendre par ses propres faiblesses, plus son clown apparaît avec force.
“Laisser surgir l’innocence qui est en lui et qui se manifeste à l’occasion du « bide », de l’échec de sa présentation.
Dès l’entrée sur scène, son visage présente un état de disponibilité sans défense. Il croit être reçu avec toute la sympathie du public, et il est surpris par le silence qui l’accueille. Alors qu’il se prenait pour une personne importante, sa réaction piteuse déclenche de petits rires. Le clown, ultra sensible aux autres, réagit alors à tout ce qui lui arrive et voyage ainsi entre sourire sympathique et une expression triste.”

Jacques Lecoq

Come può un regista o chi che sia, dirigere, dare un ruolo o un compito da svolgere ad un clown… proprio a Lui, che come si muove ne combina una delle sue e che appena si distoglie un attimo lo sguardo, lo si trova subito impegnato con qualcos’altro!  Il Clown è il gioco e la tenerezza tipica del bambino, con tutta la sua innocenza e spontaneità, quindi ciò include anche la possibilità, di qualche strana pazzia..!

Il Clown e La Bellezza

Vi è mai capitato di osservare un bimbo che gioca? Non sa far nulla o quasi, ma non puoi non guardarlo, è buffo, non puoi non tacere di fronte a una bellezza così vera. La bellezza è: spontaneità, gioco, libertà, tenerezza, gioia, vitalità, colore, suono, rumore, armonia amalgamata alla disarmonia, attenzione, presenza, festa, tristezza, corsa, immobilità, movimento, pace, urla, luminosità.. insomma la bellezza è tutto! Quando è vissuta appieno, senza vincoli o limiti, se non quelli del rispetto che i bambini hanno e comprendono, se non vengono delusi o maltrattati! Ci sono tanti tasti dolenti nella nostra società, tante poche opportunità di essere veri, tanti limiti dettati dalla cattiva educazione, tante cose che i “bambini” non sopportano! Ma anche tante cose che loro amano, come tirare i baffi al gatto e rischiare di farsi graffiare, oppure correre quando ancora non sanno stare in piedi più di alcuni secondi, guardare qualcosa che li stupisce dimenticando tutto il resto, addormentarsi tra le braccia di un genitore o sporcarsi interamente, con grande noncuranza dei vestiti, insomma chi non è stato bambino? Non occorre saper fare nulla, per essere un clown, basta solo rispolverare o togliere le maschere, a quel bambino che siamo già stati e che saremo sempre. Lui si muove in noi continuamente, anche se l’educazione e le buone maniere, lo costringono a esporsi poco, il clown è sempre lì, in agguato, in attesa di poter dire la sua, anche se con un gesto o un verso, anziché  con le parole ordinate, come fanno gli adulti.

GIACOMO DI CRISTALLO (Gianni Rodari)

“Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l’aria e l’acqua. Era di carne e d’ossa e pareva di vetro, e se cadeva non andava a pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente.
Si vedeva il suo cuore battere, si vedevano i suoi pensieri guizzare come pesci colorati nella loro vasca.
Una volta, per isbaglio, il bambino disse una bugia, e subito la gente poté vedere come una palla di fuoco dietro la sua fronte: ridisse la verità e la palla di fuoco si dissolse. Per tutto il resto della sua vita non disse più bugie.
Un’altra volta un amico gli confidò un segreto, e subito tutti videro come una palla nera che rotolava senza pace nel suo petto, e il segreto non fu più tale. Il bambino crebbe, diventò un giovanotto, poi un uomo, e ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte, quando gli faceva una domanda, prima che aprisse bocca.
Egli si chiamava Giacomo, ma la gente lo chiamava « Giacomo di cristallo», e gli voleva bene per la sua lealtà, e vicino a lui tutti diventavano gentili. Purtroppo, in quel paese, sali al governo un feroce dittatore, e cominciò un periodo di prepotenze, di ingiustizie e di miseria per il popolo. Chi osava protestare spariva senza lasciar traccia. Chi si ribellava era fucilato. I poveri erano perseguitati, umiliati e offesi in cento modi.
La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze.
Ma Giacomo non poteva tacere. Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui: egli era trasparente e tutti leggevano dietro la sua fronte pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno . Di nascosto, poi, la gente si ripeteva i pensieri di Giacomo e prendeva speranza. .
Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione.
Ma allora successe una cosa straordinaria. I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri. Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire. Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano”.

Il Clown e L’Ombra

Scriveva Federico Fellini:
“Il clown incarna i caratteri della creatura fantastica, che esprime l’aspetto irrazionale dell’uomo, la componente dell’istinto, quel tanto di ribelle e di contestatario contro l’ordine superiore che è in ciascuno di noi. E’ una caricatura dell’uomo nei suoi aspetti di animale e di bambino, di sbeffeggiato e di sbeffeggiatore. Il clown è uno specchio in cui l’uomo si rivede in grottesca, deforme, buffa immagine. E’ proprio l’ombra. Ci sarà sempre. E’ come se ci chiedessimo: E’ morta l’ombra? Muore l’ombra? Per far morire l’ombra occorre il sole a picco sulla testa: allora l’ombra scompare. Ecco: l’uomo completamente illuminato ha fatto sparire i suoi aspetti caricaturali, buffoneschi, deformi. Di fronte a una creatura tanto realizzata, il clown – inteso come il suo aspetto gobbo – non avrebbe più ragione di essere. Il clown, è certo, non sarebbe scomparso: sarebbe stato, soltanto, assimilato. Cioè, in altre parole, l’irrazionale, l’infantile, l’istintivo non sarebbero più visti con un occhio deformatore, quello che li rende deformi”.
Secondo Jung, in un contesto repressivo lo sfogo può avvenire anche attraverso quegli aspetti considerati bizzarri o folcloristici: “L’Ombra, al nostro livello attuale di civiltà, è considerata una deficienza personale (gaffe, lapsus) e viene addebitata alla personalità cosciente come una sua mancanza… L’ombra personale è per così dire la discendente di una figura luminosa collettiva. Questa, sotto l’influenza della civiltà, a poco a poco si disgrega e sopravvive soltanto in residui folcloristici dov’è difficile identificarla. Ma il suo nucleo principale si integra alla personalità e diventa oggetto di responsabilità soggettiva […] Non ha coscienza di sé al punto che non costituisce un’unità, e le sue due mani possono litigare l’una con l’altra […] Persino il suo sesso è facoltativo, malgrado i suoi attributi fallici: il briccone può trasformarsi in donna e generare bambini […] rivelando così la sua originaria natura di creatore: dal corpo del dio si forma il mondo”

“Il clown non ha bisogno di conflitto, è in permanente conflitto con se stesso”

Jacques Lecoq

Il clown tradizionale indossa una maschera ”Le Nez Rouge, le plus petit masque du monde (Lecoq)”, come per esorcizzare gli aspetti che impersona dal suo sé fuori dal clown. Egli sperimenta la libertà concessa soltanto a lui, che gli sottrae le sicurezze abituali, la camminata o l’abbigliamento “normali”. Può mostrarsi fragile senza suscitare timore, può vestirsi come vuole, e può far saltare le certezze quotidiane senza essere emarginato. Secondo Lecoq, il clown è sincerità e semplicità: “Con il clown, chiedo (agli allievi) di essere se stessi nel modo più profondo possibile e di osservare l’effetto che producono sul mondo, ovvero sul pubblico”.


“Contact direct et immédiat avec le public : il ne peut vivre qu’avec et sous le regard des autres. On ne fait pas le clown devant le public, on joue avec lui. Jeu influencé par les réactions du public.”

Jacques Lecoq

Il Clown e il Sociale

La figura del clown non potrebbe esistere senza quell’insieme di problematicità e di inquietudine umana, che egli mostra in vari modi e con varie sfumature. Il clown appare incapace di dominare la realtà, capace soltanto di mostrare le assurdità e le follie che gli sono proprie. Egli sa esprimere ciò che è comunemente inesprimibile, o che è negato: la devianza, la stupidità, la distrazione o l’inadeguatezza. Il clown è oltremodo “deviante”, è spontaneo e allegro come può esserlo un bimbo, e ciò è permesso soltanto a chi non è adulto o a chi interpreta un “ruolo” e il cui comportamento rimane relegato all’interno di quel ruolo. Egli diverte perché fa “cose proibite” o rappresenta colui che diverge da tutti gli altri, e può farlo finché è clown.
Per alcuni studiosi il clown (o il comico in generale), può consentire una catarsi, scaricando attraverso una risata la tensione, e permettendo di vedere in modo diverso un evento o una situazione. Al comico si permette di capovolgere la realtà, di ironizzare su personaggi o situazioni così come la persona comune non può fare. Il comico può provocare, tanto la sua provocazione si intende come estranea alla realtà, in quanto appartenente all’ambito dell’irrealtà clownesca.
Provocando, il comico contribuisce ad alleggerire la tensione, senza però permettere di modificare in alcun modo la realtà che l’ha provocata. Il riso è un sollievo momentaneo, certamente assai salutare, ma non può sostituirsi all’azione eversiva delle persone che non vestono i panni del comico.
Secondo diversi autori il comico può assumere compiti di tipo “politico” nel produrre catarsi e nel sostenere le logiche del potere. Il comico serve a “Denunciare vizi, comportamenti riprovevoli, devianze dall’ordine che il sistema sociale stabilisce, e in tal modo avviare, esplicitamente o implicitamente, la loro repressione o correzione, appare essere la via per giustificare un ruolo a sua volta istituzionale, ma tale divenuto cristallizzando posizioni alternative, trasgressive o comunque sospette”. (D’Angeli-Padano)
Alcuni autori hanno messo in evidenza una presunta funzione repressiva esercitata dal comico: egli, nel rappresentarlo in modo irriverente, stigmatizza il diverso. Mostra colui che non si conforma come fosse uno sciocco insensato che proprio perché non abbastanza intelligente è incapace di condividere i significati accettati da tutti. Secondo D’Angeli e Padano, bollando per stupidità il voler esprimere liberamente se stessi fuori dalla massa, si ottiene un compromesso nel giudizio sociale, che permette di prevenire o sostituire il giudizio manicomiale. Osservano: “Pur restando devianza dalla norma, esso si fa norma a sua volta, e sostanzia di sé il comportamento sociale, diventando di fatto la morale dominante. In questo caso l’aggressione comica equivale a una battaglia politica, e infatti si propone di contribuire a un fine propriamente politico, il sovvertimento della società corrotta. L’indignazione che condanna l’immoralità di una società che detta le leggi e insieme si arroga il diritto di infrangerle, interpreta al livello più alto la coscienza adulta, la stessa che nutre le lotte politiche, i sermoni edificanti, le campagne di moralizzazione… non sempre dobbiamo cercare nel riso immorale l’emergenza massima della sovversione; sempre e comunque dovremo invece cercarvi qualcosa che renda accettabile la rivolta antisociale in un contesto sociale”.
Altri autori hanno messo in evidenza che il clown esiste in quanto c’è bisogno di mostrare un modo grottesco di comportarsi, e di determinare la catarsi implicita nel deridere le strutture e i significati del potere. Nel far ciò, il “buffone” di corte aiutava il re a mantenere e rafforzare il suo potere. “Il ruolo del buffone assolve così ad alcune delle medesime funzioni cui assolve la ribellione ritualizzata che permette, a quanti in un determinato sistema politico occupano una posizione subalterna, di esprimere i loro risentimenti, effettivi ed eventuali, nei confronti dell’autorità. Il fatto che la ribellione sia permessa, se non addirittura incoraggiata, significa che le istituzioni sociali e coloro che detengono il potere sono forti abbastanza da poterla tollerare, perciò va a tutto vantaggio dell’autorità e della coesione sociale… Il buffone da un lato con la sua allegria alleggerisce il peso della minaccia, spostando nell’immaginario l’eventualità di un suo ripresentarsi; dall’altro agisce contro di essa incarnando un principio di totalità; nella fattispecie ripristina in una nuova forma di equilibrio, quella originaria condizione di unità prima che il regno venisse separato da quanto in esso non poteva essere contenuto”( Willeford).
Non sempre il clown (o il comico) spalleggia il potere, egli può liberarsi dal fascino del potere e agire in libertà. Spiega Dario Fo: “ I clown, come i giullari e i ‘comici’, trattano sempre dello stesso problema, della fame: fame di cibo, fame di sesso, ma anche fame di dignità, di identità, fame di potere. Infatti il problema che pongono costantemente è di sapere chi comanda, chi grida. Nel mondo clownesco due sono le alternative: essere dominanti oppure dominare… Ai nostri giorni, il clown è diventato un personaggio destinato a divertire i bambini: è sinonimo di puerilità sempliciotta, di candore da cartolina d’auguri, di sentimentalismo. Il clown ha perso la sua antica capacità di provocazione, il suo impegno morale e politico. In altri tempi il clown aveva saputo esprimere la satira alla violenza, alla crudeltà, la condanna dell’ipocrisia e dell’ingiustizia… L’osceno è sempre stato l’arma più efficace per abbattere il ricatto che il potere ha piazzato nel cranio della gente, inculcandole il senso di colpa, la vergogna e l’angoscia del peccato. Che grande trovata quella di farci nascere già colpevoli, con una colpa (quella originaria) da scontare o lavare! Machiavelli consigliava al Principe: “Date a un popolo la convinzione d’essere colpevole, non importa di che, e vi sarà più facile governarlo”. Distruggere, col far ridere, questa angoscia, è sempre stato l’impegno principale dei comici, specialmente di sesso femminile”.
Soltanto a carnevale si concede a tutti la possibilità di esprimere un comportamento non conforme e di vestire come si vuole. Ma in tal caso, essere liberi equivale a diventare ridicoli, grotteschi, e dunque ad assumere un comportamento che non può divenire la norma. Come scriveva il filosofo Markus Ophälders l’ironia del comico “conserva… i significati più profondi e remoti… i significati connessi all’oggetto di questa contemplazione: alla vita come festa”.
Il travestimento viene ad essere una maschera burlesca, gioiosa, un modo per uscire dal contesto quotidiano e sfogare le tensioni. Nel clima festoso cessa l’ansia, vengono attutite momentaneamente le paure e si riceve una temporanea consolazione.
C’è l’idea che si possa uscire dagli schemi soltanto in determinati ruoli o in determinati tempi e modi. Associare l’essere “diversi” alla comicità o alla circostanza festosa, equivale a dimenticare che molti aspetti del concetto di “realtà” sono arbitrari, ma vengono imposti come assoluti, impedendo una libera scelta individuale. Si dà una informale licenza di ridicolizzare tutto ciò che non rientra nei criteri della “gabbia di massa”.
In altre parole, si può uscire dagli “schemi”, ma, paradossalmente, a patto di rimanere negli schemi del comico o dei festeggiamenti carnevaleschi, altrimenti si corre il rischio di finire alla gogna mediatica o imbottiti di psicofarmaci.
Imparare ad agire come ci si sente veramente, senza timore di far emergere gli aspetti non allineati con ciò che gli altri si aspettano da noi è molto difficile. Più facile è far sentire a noi stessi e agli altri il peso del conformismo.
Siamo indotti a focalizzarci soltanto sugli aspetti esteriori e superficiali di noi stessi e degli altri, per non scoprire che ognuno è un universo pregno di creatività, che si cerca di tenere bloccata a costo di produrre nevrosi.
Nell’aborrire il clown che c’è dentro di noi, e nel temere di esprimere qualcosa che non rientra nei canoni della “realtà”, si rischia di perdere la parte più vera di se stessi, e tutto ciò che potrebbe essere espresso soltanto attraverso una sincera risata.

Il Clown e La Risata

Essere clown è essere se stessi, toglietevi dalla testa che il clown deve far ridere! Federico Fellini, già negli anni ’70, ha detto: il clown è morto! Come può essere più se stesso, se ora ha l’obbligo di far ridere, di apparire; infatti in quegli anni, il circo ha perso la sua naturale genuinità, diventando estremamente paiettato e appariscente […]; non c’è nulla di più triste, di un essere che “deve” far ridere. Dario Fò in un suo scritto sul clown sottolinea che quest’ultimo, è diventato un passatempo per bambini, perdendo il suo ruolo politico e sociale di comunicatore, quando invece, sin dai tempi più antichi, era colui che metteva luce su determinati temi e ingiustizie, risvegliando nel popolo il senso critico e l’attenzione. Non che i clown siano dei portatori di verità, intendiamoci, sono loro stessi la verità!Il clown è una dimensione dell’essere, attraverso l’esperienza e la spontaneità, ti avvicini a te stesso e da lì potrai bere dalla fonte buffa e ridicola, tutte le volte che te lo permetterai. Il bambino osserva, trova, fa scoperta, l’adulto molto spesso giudica.. liberiamoci dai giudizi su noi stessi e sugli altri e permettiamoci di sbagliare e mal che vada, abbiamo scatenato una risata. Mettendo da parte il passato e le aspettative legate al futuro, diventiamo più veri nel vivere il presente, unica sola realtà.
Da tempo immemore i buffoni, i pagliacci o i clown hanno avuto la funzione di suscitare la risata. A questo scopo si mascheravano e si comportavano da “diversi”, ovvero da sciocchi, sbadati, o da simpatici maldestri.
Non c’è nulla che non possa suscitare ilarità, come osservava Nietzsche, “falsa sia per noi ogni verità, che non sia stata accompagnata da una risata”.
In realtà, riuscire a far ridere è tutt’altro che facile. L’attore teatrale, mimo e pedagogo Jacques Lecoq voleva capire cosa facesse ridere, e chiese ai suoi allievi di far ridere; tutti cercarono in molti modi, inciampando o facendo smorfie, di far ridere, ma non vi riuscivano se non quando, imbarazzati e con aria triste tornavano al loro posto. A quel punto tutti ridevano, “Non del personaggio che pretendevano di presentarci, ma dell’attore stesso, messo a nudo” . Non bisogna dunque affannarsi per diventare un comico, come spiega Lecoq: “meno cerca di recitare un personaggio, più l’attore si lascia sorprendere dalle proprie debolezze, più il suo clown appare con evidenza” .
E’ la coscienza dei difetti, delle angosce o insicurezze a rendere capaci di far ridere, e riuscire a far ridere risulta un trionfo sui propri difetti, attraverso il coraggio di mostrarli.

“Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore (…) è paradossale che nell’elaborazione d’una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo; perché il ridicolo, immagino, è un atteggiamento di sfida: dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le forze della natura, se non vogliamo impazzire”.

Charlie Chaplin

Il Clown, Il Comico, La Satira e Le diverse Qualità di Riso

La filosofa Maria Zambrano sente il bisogno di distinguere il riso canzonatorio dal sorriso effusivo, cordiale. Se il primo, seguendo sicuramente Bergson, le appare come una forma di censura sociale, di insocievolezza della società, nel secondo rinviene senz’altro una forma di comunicazione, di simpatia, di empatia. Il pagliaccio, con la sua maschera, con i sui gesti, con la sua mimica, con le sue sciocchezze e le sue prodezze, asseconda una riconciliazione, perché ridendo di lui ridiamo anche un po’ di noi stessi. Il pagliaccio ci consola perché ci somiglia. Chi ride di solito non si sente oggetto della parodia e non è emotivamente coinvolto. Come spiegò il filosofo Henry Bergson, l’emozione impedisce la risata. Infatti, nessuno ride in una situazione che lo coinvolge emotivamente: “Anime invariabilmente sensibili, accordate all’unisono con la vita, in cui ogni avvenimento si prolungasse in risonanza sentimentale non conoscerebbero né comprenderebbero il riso”. Questo accade perché di solito non vogliamo ridere di noi stessi e nemmeno delle persone a noi vicine, vogliamo ridere dei nostri nemici o di coloro che non ci stanno a cuore. In altre parole, desideriamo credere che non si possa ridere di noi ma soltanto di quelli che non ci sono simpatici. Ma in realtà si può ridere di tutti, e il saper ridere di se stessi svela una grande anima. L’anima di chi sa che tutti gli esseri umani hanno lo stesso valore, e che non esiste colui che è tanto perfetto da non poter essere deriso, né colui che è tanto imperfetto da dover essere deriso per forza.
Sembrerebbe che la comicità possa svelare gli aspetti umani più veri, sancendo una possibilità di verità di se stessi non concessa se non al di fuori del “normale”.
Il riso satirico è frutto di un’analisi acuta dello scarto fra ciò che dovrebbe essere e ciò che è. Esso scaturisce dal disappunto e dalla frustrazione causati da un mondo che non è come promette di essere.
La satira è sovversiva, in quanto fa emergere i paradossi e le incongruenze quotidiane o del sistema.
La satira può diventare un elemento di crescita e di maggiore comprensione della realtà. Per questo motivo, nei sistemi dittatoriali la vera satira viene censurata o tenuta in ambiti ristretti (ad es: in teatro), mentre la comicità più grossolana, fatta di luoghi comuni e banalità (es: volgarità, costumi grotteschi, ecc.), viene concessa alla “massa”.
La satira, come ogni tipo di libera creatività, si basa sul “cambiare il punto di vista”, ovvero sulla capacità di vedere la realtà in modo nuovo.
Il buffone, in epoca Elisabettiana, era il “deviante” o colui che aveva deformità fisiche o problemi mentali. Coloro che volevano far ridere prendevano di mira i difetti umani, come l’avidità, l’avarizia, la rozzezza e la paura. Altre caratteristiche riprese dai clown erano l’eccentricità e l’ingenuità. In alcuni casi erano oggetto di derisione caratteristiche corporee come la magrezza, la grassezza o l’altezza.
Secondo lo studioso William Willeford, l’anomalia fisica e mentale dell’attore-Fool (attore comico) si ergono a simboleggiare l’uomo negli aspetti che non si integrano nella società, e che lo rendono “diverso” dagli altri: “Solo se si accetta la zona di follia che è dentro di noi si ottiene l’accesso ai contenuti creativi che essa cela …Il Fool tragico è in ciascuno di noi, e vuole essere riconosciuto, accettato, amato. La nostra umanità non può prescindere dalla sofferenza che ci causano la nostra inadeguatezza e la nostra goffaggine, la parte ridicola che talvolta ci tocca recitare nel grande spettacolo del mondo… Il Fool incarna dunque la parte non adattata e ridicola della personalità. Ma è proprio quella parte disprezzata, quella funzione inferiore a fare da ponte con l’inconscio e a consentire di continuare il cammino verso la completezza… (il) Fool… pur essendo il più delle volte un’accozzaglia di elementi caotici e sproporzionati, riesce, talvolta, a comporre questi stessi elementi in un disegno equilibrato e armonico”.

” Clown viene dal latino colonus, il contadino. Colui che lavora la terra, ne raccoglie i frutti. Scarpe grosse e cervello fino, un uomo del fare e del provocare, fuori dalla logica convenzionale.
E’ il villano del Ruzante, il fool di Shakespeare, il rustico, lo zotico, il sàtyros della Magna Grecia, tutti capaci però di dare al momento giusto, con un guizzo di sintesi illuminante, il senso di tutta una situazione.
Di mostrare le cose come stanno, nude, crude e aspre. Un “povero con spirito” di quelli che piacevano a Gesù.
Difatti, in molti mosaici e affreschi del Medioevo, il colonus, tanto da Giotto che da Piero Cavallini, viene raffigurato a fianco del Cristo. Quasi un mediatore tra Cielo e Terra. Insomma un mestiere serio.”

Dario Fo

IL FALLIMENTO

«Essere artista è fallire, così come nessun altro ha il coraggio di fallire, il fallimento è il mondo dell’artista, e sfuggirlo equivale alla diserzione, ad arti e mestieri, a buona amministrazione casalinga, a vivere» (cit. in Samuel Beckett, Il “fallimento” di Bram Van Velde, in «L’Europa letteraria», aprile 1961). Proviamo, innanzitutto, a circoscrivere il fenomeno. Chi è il raté, il fallito? Lo si ritrova un po’ ovunque, a ogni latitudine, nelle città di provincia non meno che nelle metropoli. Cioran ne azzarda una definizione: «Un tipo molto dotato che non si realizza, che promette tutto e non mantiene le sue promesse». È quindi un dissipatore di risorse – materiali, ma soprattutto intellettuali – il quale, invece di metterle a frutto, le spreca. Non si abbassa a lasciare un’opera, una traccia scritta del proprio sembiante, preferisce frantumarla e disperderla in mille divagazioni orali, in attesa che un moderno Plutarco le raccolga in qualche Vita parallela degli uomini incompiuti […]. Detesta sistemarsi o progettare la propria parvenza d’essere; avanza inanellando rinunce, sperimentando tutte le sfumature dell’impasse: sterilità, stagnazione, astensione e trascuratezza. Si adatta a vivere da parassita dell’assurdo, da scroccone del caos: «È un Ecclesiaste da marciapiede, che attinge dall’insignificanza universale un alibi per le proprie disfatte». Certo, sul piano della performance sociale è destinato ad apparire impotente, goffo, inconcludente, sbeffeggiato com’è dagli atleti della produttività obbligatoria. Inchiodato ai blocchi di partenza, non prende parte alla gara della vita, ben sapendo che tutti i partecipanti, presto o tardi, inciamperanno rovinosamente in qualche ostacolo e che nessuno, veramente nessuno, taglierà mai il traguardo. Se nell’immediato sembra aver torto marcio, alla fine, statene certi, riderà per ultimo. Orgoglio supremo del fallito, rivincita estrema del perdente, la si chiami come si vuole, resta il fatto che le evidenze si schierano a ranghi serrati dalla sua parte. Nei Sillogismi dell’amarezza, Cioran non esita a sposarne la causa (persa), sferrando un fendente micidiale agli apostoli del rendimento: «Se la Storia avesse un fine, come sarebbe penosa la sorte di noi che non abbiamo compiuto niente! Ma, nel nonsenso universale, noi c’innalziamo, puttane inefficaci, canaglie fiere d’aver avuto ragione». L’universale ineluttabilità della morte ci suggerisce come il fallimento, inscritto dalla natura nell’essenza stessa dell’individuo, finisca per coincidere col nostro destino. In altre parole, «l’individuo è uno scacco esistente» un essere votato al fiasco, insomma. Tuttavia, quanti ne sono consapevoli? Quanti all’altezza? «Gli uomini non sanno essere inutili. Hanno dei cammini da seguire, delle mete da raggiungere, dei bisogni da saziare. Non sanno gioire della propria incompiutezza, mentre la vita non si giustifica altrimenti che per l’estasi di questa incompiutezza!». Il fallimento non è qualcosa d’accidentale nella vita, che può o meno verificarsi a seconda dei casi, quanto piuttosto una sgradita sorpresa che attende al varco tutti gli esistenti. Se la morte è lo stratagemma più democratico escogitato dalla natura per rinnovarsi, diventa inutile incaponirsi, rilanciare a ogni occasione la posta: tanto vale adeguarsi, ben sapendo che nessuno uscirà vincitore dalla roulette della vita. «Si crede di avanzare verso tale o talaltro scopo, dimenticando che non si avanza realmente che verso lo scopo stesso, verso lo sfacelo, insomma, di tutti gli altri». Come la malattia svela brutalmente la deperibilità del nostro corpo, così lo scacco ci mette di fronte alla vanità d’ogni obiettivo e alla vacuità dell’Io che cercava in esso la propria realizzazione. Se il perdente saprà mantenersi all’altezza del proprio fallimento, sfruttandone le potenzialità metafisiche, allora sarà a suo modo un illuminato, qualcuno che ha definitivamente compreso: «Anche se incolto, il fallito sa tutto». Solo in quel momento, «sulle rovine della vita», lo spirito si desta, «fiorisce». Poiché «ciò che conta – assicura Cioran – non è produrre ma comprendere. E comprendere significa […] percepire la somma d’irrealtà che entra in ogni fenomeno». Se lo scacco svela la nudità ontologica del reale, il successo, al contrario, equivale più o meno a un abbaglio, a un annebbiamento interiore, a un arretramento spirituale. Frutto di una congiuntura favorevole quanto imprevedibile di condizioni e accadimenti, la cosiddetta “riuscita” nasconde all’individuo i propri limiti – il determinismo biologico che lo sottende e quello cosmologico che lo sovrasta – rendendolo, in altre parole, oscuro a se stesso. Illudendolo di essere stato lui a pilotare il corso degli eventi verso il raggiungimento del risultato, il successo lo adula, lo lusinga, inoculandogli il veleno dell’onnipotenza e dell’infallibilità. Mostri di superficialità accecati dal demone dell’efficacia, i self-made men procederanno insensibilmente, come dei «perfetti idioti», verso l’abisso, verso «la smentita di tutto ciò che sono stati e di tutto quello che hanno fatto». Persino uno scrittore di successo come Scott Fitzgerald non riuscirà, secondo Cioran, a trarre tutte le conclusioni dal crollo che lo colpì all’improvviso. Benché The Crack-up – cronaca e autopsia del suo fallimento – sia d’una lucidità abbagliante, dinanzi al gouffre, all’abisso pascaliano, reagirà da romanziere, cercando un improbabile equilibrio tra «il senso dell’inutilità d’ogni sforzo e quello della necessità della lotta, tra la convinzione dell’inevitabilità dello scacco e l’imperativo della riuscita». Trascinato dall’inguaribile ottimismo yankee, Fitzgerald vivrà hollywoodianamente il resto dei suoi giorni, come «un piatto incrinato», spiritualmente al di sotto dell’abissale verità intravista. Consapevole che «non si sfugge alle proprie origini, specialmente alle nostre», alla fine Cioran, a differenza di Fitzgerald, reagirà pascalianamente, facendo i conti con se stesso e il proprio passato. In altre parole, diventerà ciò che era, riconciliandosi con l’anima romena, quella parte di sé rinnegata e rifuggita in gioventù. Infine si rende conto che «la Valacchia del cuore» – quel misto di fatalismo atavico e di straziante nostalgia, frutto di un’incompiutezza essenziale, di un’inadeguatezza congenita all’essere – l’ha accompagnato ovunque, come «una poesia senza ritmo, un canto anteriore all’ispirazione, l’abbozzo di un’impossibile melodia». Senza quella disciplina di fronte all’Irreparabile che è l’idea del destino – grazia ereditata dalle sciagure dei propri antenati – sarebbe forse riuscito a sopportare «l’orrore d’ogni giorno»? Quella saggezza funebre, vera e propria metafisica rurale che un tempo lo riempiva di vergogna, ora diventa un segno d’elevazione, «una salvezza negativa», «una filosofia della storia ad uso quotidiano», una risorsa indispensabile per affrontare i rovesci della vita, al punto da far impallidire le sterili elucubrazioni degli intellettuali parigini. Il debito di riconoscenza va quindi a tutti quei falliti frequentati in gioventù, debosciati sublimi che lo hanno svezzato dalle illusioni della vita: «Imponendomi le loro amarezze mi avevano preparato alle mie». In particolare, rimane indelebile nella memoria di Cioran la figura d’un compaesano di Răşinari. Costui, dopo aver ereditato una fortuna da uno zio d’America, la dilapidò nel giro di qualche anno, trascorrendo le sue giornate cantando e ubriacandosi nelle osterie, in compagnia d’un musicista di strada. «Ma gli dèi si mostrarono clementi: morì subito dopo. Senza sapere perché, ne ero affascinato – racconta Cioran – e avevo ragione di esserlo. Ora quando ripenso a lui, persisto nel credere che egli fosse veramente qualcuno, che tra tutti gli abitanti del Paese lui solo avesse abbastanza levatura da sprecare la sua vita». Qualcuno, a questo punto, potrebbe insinuare che l’apologia cioraniana del fallimento sia solo una posa letteraria decadente, una provocazione poetica mirata a épater les bourgeois o, peggio ancora, una giustificazione ideologica del proprio status di scrittore senza lettori. Ad ogni modo, l’austera sobrietà della sua vita sarà la migliore confutazione di certe maliziose calunnie, nonché la conferma dell’autenticità, del sonner vrai, della sua prosa. Sul finire degli anni Settanta, in seguito alla pubblicazione di Squartamento, il successo bussò infine alla minuscola porta della mansarda, al 21 di rue de l’Odéon. Cioran non si scompose, anzi, fu visibilmente contrariato dall’improvviso clamore suscitato dal libro. Trent’anni d’apprendistato nel mimetismo dell’anonimato – all’insegna di quell’ama nesciri («desidera di essere ignorato») raccomandata dall’ignoto autore dell’Imitatio Christi  – lo avevano corazzato per resistere alle sirene d’una notorietà tardiva, alla calamità di una fama planetaria che aveva già contagiato tanti suoi amici, il filosofo Gabriel Marcel in testa. Allorché i suoi opuscoli iniziarono a circolare in Spagna, qualcuno insinuò che il nome Cioran non fosse altro che un eteronimo inventato dal traduttore, il filosofo Fernando Savater. Questi lo informò prontamente del malinteso: «Cioran, qui dicono che lei non esiste». Da Parigi, a stretto giro di posta, arrivò l’insolita risposta: «Per favore, non li smentisca!». La fedeltà alla sapienza dello scacco di chi aveva dichiarato «piuttosto in una cloaca che su un piedistallo» rimarrà inalterata, respingendo l’assalto della più becera alleata dell’«abominevole Clio»: la televisione. All’invito allettante di Bernard Pivot, conduttore della celebre trasmissione letteraria Apostrophes, Cioran opporrà un secco rifiuto: «Non voglio che la gente si ricordi della mia faccia e che mi guasti il piacere maggiore della mia vita, le passeggiate per il giardino del Luxembourg» . Raramente l’umanità ha dato prova di simili esempi d’eleganza morale, che consiste «nell’arte di mascherare le proprie vittorie in sconfitte». Per noi moderni, genìa prometeica e faustiana al capolinea della storia, che abbiamo cercato e atteso l’eterno nel tempo, invasati dalla strampalata idea di edificarlo mediante l’azione, per noi, armeggiatori nell’incurabile, il fallimento finisce per diventare un passaggio obbligato, qualcosa come una tappa tutta occidentale verso il risveglio. In aperto dissenso con l’etica mistificante della vittoria, la saggezza paradossale di Cioran invita a vedere la débâcle en rose, ad abbracciarla, ad amarla: «Dopo, non si avranno più sorprese: si è superiori a tutto ciò che capita, si è padroni dei propri scacchi. Una vittima invincibile» . Il fallito? Un recalcitrante divino, un eroe à rebours…